La Stanza Gialla

All’inizio del II secolo a.C. l’ampia area pianeggiante a valle dell’Aventino fu scelta come sito ideale per la realizzazione di un porto fluviale. Lungo la riva sinistra del Tevere nel tratto compreso tra l’attuale quartiere Testaccio e l’antica via Marmorata, che originariamente costeggiava il fiume e la rupe aventina, vennero costruite banchine in muratura, con anelli di ormeggio in pietra, rampe e gradinate su vari livelli per favorire l’attracco delle imbarcazioni in ogni stagione dell’anno. La costruzione dei muraglioni del lungotevere avviata a partire dal 1870 per evitare disastrose alluvioni alla città, ormai capitale di uno Stato Unitario, ha purtroppo cancellato quasi completamente le evidenze archeologiche del porto fluviale: rimangono la documentazione d’archivio, compilata dagli scopritori, e alcune suggestive foto d’epoca. Nell’emporium tiberino sbarcavano soprattutto derrate alimentari contenute in anfore stoccate, a loro volta, in edifici monumentali denominati horrea; di questi magazzini, costruiti alle spalle del porto vero e proprio da ricche famiglie di proprietari terrieri, non sono rimaste molte tracce archeologiche. Tuttavia la loro struttura e i nomi dei costruttori sono noti da alcuni frammenti della Forma Urbis, la pianta marmorea risalente agli inizi del III sec. d.C. dove sono incisi i monumenti più importanti della città. Tra i resti ancora oggi visibili i più imponenti sono quelli della Porticus Aemilia, un grandioso edificio a pianta rettangolare suddiviso in 50 navate, costruito alla fine del II sec. a.C. e ristrutturato nel II sec. d.C., in età traianea.

Nel tratto di lungotevere a valle del ponte Sublicio rimangono attualmente una serie di ambienti coperti a volta e disposti su

due livelli: essi avevano una doppia funzione di deposito delle merci e di sostruzione per un molo di attracco soprastante. Anche a monte del ponte Sublicio, ai piedi dell’Aventino, furono individuate altre infrastrutture dell’antico porto fluviale come banchine con ormeggi a testa di leone e magazzini. Di questo complesso, sacrificato durante i lavori di arginatura del Tevere, rimane solo la documentazione grafica e fotografica.
Riflessi delle attività che dovevano svolgersi all’interno degli horrea, possono essere letti grazie allo studio delle anfore contenenti olio che, non ulteriormente riutilizzabili, vennero depositate in un’apposita discarica, dando luogo nel corso dei secoli alla collina artificiale di Monte Testaccio. I contenitori, inoltre, sia integri che frammentari, trovarono un loro reimpiego nell’area dell’emporium come materiale da costruzione per l’esecuzione di murature e di canalizzazioni idriche, secondo quanto riportato in luce nel corso di recenti indagini di scavo condotte nella zona.
A partire dal V sec. d.C. si assiste a una generale contrazione dell’attività commerciale, storicamente documentata dalla diminuzione delle merci in arrivo nell’Urbe; negli horrea, ormai ridotti allo stato di ruderi spogliati del loro originario rivestimento, si installarono botteghe di marmorari impegnati a rifornire la città di materiale da costruzione, ricavato, appunto, dalla lavorazione del marmo.
Il Tevere, al contrario, soprattutto nell’area dell’antico emporio, continuò a rivestire un ruolo primario di collegamento tra Roma e il mar Tirreno, testimoniato da una ricca serie di documenti iconografici.


 


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